sabato 9 maggio 2009

MATRIX RELOADED

Matrix Reloaded si svolge fra la Matrice e Zion, l’ultima città umana, abitata dai ribelli. In questo sequel si cominciano a chiarire i misteri del primo film e si delineano meglio i personaggi.
Neo sa ormai di essere l’Eletto e il suo compito è di salvare, entro 72 ore, Zion dall’attacco delle sentinelle meccaniche già protagoniste del primo Matrix. L’oracolo suggerisce a Neo che l’unica soluzione è trovare il fabbricante di chiavi, tenuto prigioniero dal Merovingio, perché è lui che ha l’accesso a porte e portali segreti della Matrice. Neo che ormai ha anche imparato a volare riesce a incontrare l’Architetto, l’ideatore della Matrice. Da lui apprende di essere un’anomalia del sistema e deve accettare il fatto che nella Matrice tutto sembra essere già stato previsto. Il film si conclude all’improvviso rimandando al secondo dei sequel: Matrix Revolutions.

In Reloaded e Revolutions, John Gaeta, supervisore degli effetti speciali dell’intera trilogia, è stato affiancato da oltre 500 artisti, i quali hanno fornito al dipartimento artistico di Matrix il materiale per storyboard, CAD, modellini in 3D, filmati in Quicktime, nonché i disegni per creature meccaniche e robot basati sulle tavole di Geoff Darrow, uno tra i più celebri disegnatori di fumetti.

Il “guru” Gaeta, dopo averci stupito nel primo episodio con la rivoluzionaria tecnica denominata “Bullet Time” (una slow-motion scannerizzata e poi rigirata a velocità regolare) dove il punto chiave delle scene girate con questa tecnica era quello di far rallentare l’azione al punto che, teoricamente, sarebbe stato possibile vedere il percorso di un proiettile, in Reloaded è passato a quello che definisce “cinematografia virtuale”, ossia a una tecnica di “Motion Capture” la quale ha permesso di catturare i movimenti delle rappresentazioni virtuali dei personaggi principali, portandoli al parossismo, in sede di montaggio digitale, per creare delle imprese sovrumane tipo la spettacolare lotta tra Neo e le cento repliche dell’agente Smith, la famosa “Burly Brawl”, che ha richiesto 27 giorni di riprese, 12 stuntmen e 72 diverse versioni. In questa scena Keanu Reeves e Hugo Weaving sono stati ripresi da ogni angolazione possibile da ben cinque macchine. I dati sono stati poi riversati in un computer che ha ricreato algoritmicamente l’immagine permettendo così la duplicazione virtuale degli attori.
Gli esiti di queste innovazioni tecniche comprendono uno straordinario “Universal Capture”, capace di estrapolare le espressioni facciali da applicare ai corpi, effetti, questi, tipici degli anime giapponesi che i fratelli Wachowski hanno fortemente voluto nel loro film.

In Reloaded gli effetti digitali sono moltissimi e anche piuttosto evidenti. Da questo punto di vista credo si possa definire un film “barocco”, caligarista, forse eccessivamente pitturato come si può arguire da qualche sequenza della “Burly Brawl” dove è molto chiara l’immagine di sintesi di Neo.

A tale proposito, Tom Gunning, è il teorico del cinema che ha contestato la leggenda che accompagna la visione del primo film della storia, (“Arrivée d’un train à la Ciotat”, Lumière, 1895) sostenendo che il pubblico del Salon Indien poteva anche essersi spaventato, ma certamente non era così ingenuo da credere veramente che un treno stesse piombando in sala. Secondo Gunning ciò che ha stupito gli spettatori è stata proprio la differenza tra ciò che sapevano essere reale e ciò che vedevano con i propri occhi, ossia essi ammirarono la capacita del medium cinematografico di creare un’illusione così autentica da farli per un istante credere a una cosa impossibile.
Con il digitale c’è il ritorno ad un cinema d’attrazione che gioca proprio su queste discontinuità. In sostanza lo spettatore odierno si meraviglia degli effetti speciali perché ha ormai grammaticalizzato il linguaggio cinematografico come a dire che gusta appieno un trompe l’oeil perché comprende cos’è un trompe l’oeil.

Reloaded come d’altronde gli altri due film della trilogia è un esempio di film che straripa di citazioni. In campo cinematografico, oltre ad autocitarsi, c’è “Terminator” e “La tigre e il dragone”, “Blade Runner” e “Mission Impossible”, “Minority report” e “Superman”. La ricca intertestualità di Matrix emerge anche da citazioni letterarie come quelle che si riferiscono alla letteratura cyberpunk di William Gibson che ha anche scritto la postfazione alla sceneggiatura o a quelle di Philip K. Dick.

La costruzione manuale delle immagini del cinema digitale, come ci dimostrano i 1000 effetti speciali di Reloaded e i 1500 di Revolutions segna il ritorno alle pratiche precinematografiche del XIX° secolo quando le immagini erano dipinte a mano e animate artigianalmente.
Con il D-cinema il cosiddetto cinema “dal vero” tende a non poter essere distinto dall’animazione in quanto il confine fra i due cinema va sempre più sfrangiandosi.

L’animazione ha sempre messo in primo piano il proprio carattere artificiale, ammettendo apertamente di lavorare con immagini che sono semplici rappresentazioni.
Al contrario il cinema “dal vero” si è sempre sforzato di cancellare qualsiasi traccia del suo processo produttivo e ci ha sempre voluto far credere che le immagini sono pure e semplici registrazioni e non ricostruzioni del reale.
Nell’immaginario collettivo il cinema è ciò che imprigiona la realtà su celluloide e fotografa ciò che esiste e non ciò che non è mai esistito tanto è vero che gli effetti speciali sono sempre stati spinti alla periferia del cinema. Ma è con l’avvento del digitale che il cinema ottiene quella plasticità che tempo fa era esclusiva della pittura e dell’animazione.

Il D-cinema è il cinema delle convergenze, il luogo di interscambio di tutte le arti visive (pittura, architettura, arti moderne quali pop-art, body art ecc., musica) perché ha in sé dei tributi che provengono da altre arti, non è un’arte autoctona, pura, come sostiene Bazin. La constatazione che possa esserci un’influenza reciproca tra il cinema e le altre arti fa in modo che l’empasse sulla disputa tra cinema puro e impuro venga superata.
Oggi il cinema non solo non si nutre più di altre arti ma è esso stesso che nutre altre arti. A un certo momento, quindi, lo stesso Bazin prende atto di questa impurità consustanziale del cinema che è giunto a un punto in cui inizia a diffondere il suo verbo alle altre arti.

Videogames, Internet, videoclip sono arti affluenti a quel mainstream che è il cinema. Il cinema “rimedia” ed è “rimediato” sempre più da altre arti come direbbe Jay David Bolter. Allo stato attuale è più facile produrre un videogame cinematografico che non un film interattivo, “videoludico” dove lo spettatore-giocatore può rivestire il doppio ruolo di attore e di regista.
Animatrix, cartoon di ispirazione giapponese, e Enter the Matrix, videogame scritto dagli stessi Wachowski, costituiscono l’esempio più eclatante della “rimediazione” che è poi la caratteristica più importante dei nuovi media, ossia la rappresentazione di un medium all’interno di un altro#.
Lo stesso storyboard di Matrix, superfumetto di 700 pagine disegnato da G. Darrow, che i Wachowski hanno usato per convincere poi la Warner Bros. a comprare la sceneggiatura del primo Matrix, assurge a simbolo di questo crossing mediale, di questa ibridazione tra arti.
Lo storyboard è sempre stato una fase fondamentale del cinema d’animazione e oggi con gli effetti speciali è divenuto obbligatorio.

Oggi con il digitale il regista, come il pittore rinascimentale, detiene il controllo assoluto dell’immagine, fotogramma per fotogramma, pixel per pixel.

Gli effetti speciali diventano la norma nel nuovo D-cinema perché il cinema non ha più nulla da dire ma ha da mostrare ossia non nutriamo più nei confronti di esso aspettative di tipo narrativo.
Il cinema nasce, infatti, come macchina spettacolare, d’attrazione, per poi divenire teatro sonoro.
Nel cinema digitale la pellicola impressionata non è più il fine del cinema ma solo una materia prima destinata all’elaborazione in un PC (l’animazione, inserimento di immagini in 3D ricostruite al computer ecc.) dove si procede di fatto alla costruzione reale delle scene.
Ciò che prima veniva registrato automaticamente con la macchina da presa viene ora “dipinto a mano”, punto per punto.
Tutto il cinema postmoderno è citazionistico, ogni immagine cinematografica non è altro che immagine di altra immagine.
Il cinema, quindi, sembra tornato ad essere una sottoclasse della pittura, non più un occhio cinematografico (Kinoglaz) – come lo definiva Vertov – ma un pennello cinetico.

Con il D-cinema saltano le distinzioni di genere e quelle tra vero o falso come direbbe Orson Welles perché con il nuovo linguaggio dei bit tutto è falso, tutto è artificiale.
Gli stessi Lumière riproducevano l’evento, l’immagine era artificiale anche se documentata (es. arrivo del treno, uscita degli operai dalla fabbrica), lo sguardo della macchina da presa era costruito.
Il realismo cinematografico perde così i suoi privilegi per tornare ad essere solo una delle opzioni possibili.
Il D-cinema, si direbbe in termini psicoanalitici, è il ritorno del rimosso. Il reale è l’irreale.

http://www.youtube.com/watch?v=ANWU9Hiy_5k

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